Category: Interviste


Photo by Stefano Mariantoni

Ha oltre dieci anni di carriera alle spalle, eppure in molti lo ricordano solo per il brano- tormentone Gatto matto. Nato e cresciuto in un ambiente musicale stimolante ed eclettico (il suo patrigno è un chitarrista jazz), ha iniziato a suonare il pianoforte e la chitarra fin dalla tenera età ed oggi è un musicista tra i più quotati del panorama non solo italiano, ma anche internazionale. Lo abbiamo incontrato in occasione della sua data reatina, lo scorso lunedì 29 agosto. Tra inconvenienti tecnici, come un mixer che esplode, e tanta pazienza ecco cosa ci ha raccontato.

Sono passati due anni da La vista concessa (ne abbiamo parlato qui), un disco intimista e lirico che ha ottenuto ottime recensioni da parte di critica e pubblico. Sei al lavoro su un nuovo disco?

Sto lavorando ad un nuovo album negli ritagli di tempo tra una tournèe e l’altra, dato che sto suonando soprattutto con Niccolò Fabi, ad esempio in albergo o nei giorni in cui non suoniamo, e dovrebbe uscire per aprile del prossimo anno. Il disco verrà realizzato con la mia etichetta (Fiori rari, ndr), poi mi appoggerò ad una casa discografica solo per la distribuzione. Voglio realizzare dei lavori liberi, senza vincoli creativi.

Sei molto attivo nell’ambito delle collaborazioni. Oltre al tour con Niccolò Fabi stai portando avanti il progetto Discoverland con Pier Cortese. Ce ne vuoi parlare?

L’idea è nata sul palco l’anno scorso in Calabria, per gioco. Con Pier ci piace prendere delle canzoni belle, importanti, conosciute e “distruggerle” cambiandone i connotati, gli accordi, è un modo di giocare con la musica. Pier è un cantante fantastico, il mio ruolo in questo duo è di arrangiamento musicale, e di doppie voci. C’è la voglia di creare un sound completo, abbiamo quasi finito di registrare il disco che dovrebbe uscire per ottobre. Con Niccolò la collaborazione è nata già lo scorso anno, i suoi pezzi sono fantastici ed è bella l’idea di fare il musicista a 360 gradi. Suonare per qualcuno è come suonare in una squadra, la sua band sono i ragazzi con cui sono cresciuto, gran parte del Collettivo Angelo Mai. C’è molto affiatamento sia tra noi che suoniamo che con Niccolò.

Tra i tuoi artisti preferiti c’è Nick Drake, di cui hai anche realizzato un album di cover, Pong Moon. Cosa altro ascolti? Cosa ti incuriosisce e cosa ti ha ispirato?

Quando ero più piccolo avevo un ascolto a compartimenti stagni. Mi piaceva solo quel genere o quell’artista, invece adesso ascolto veramente di tutto. In ogni genere musicale c’è della bellezza, dalla musica classica al pop, dall’elettronica più spinta alla canzone d’autore. Mi piace molto ascoltare la radio, non i network o le radio commerciali, mi piace molto Lifegate, una radio molto aperta che manda di tutto, da Wilco a Nick Drake, da un pezzo di musica classica a Miles Davis, c’è tutto. Poi io amo dai Radiohead a Coltrane, tutte cose che mi ispirano direttamente o indirettamente.

Con Tempo e Pace hai partecipato alla compilation degli Afterhours Il Paese è reale, da questo punto di vista, oltre alle collaborazioni che già hai o ti stai costruendo, c’è qualcuno con cui ti piacerebbe lavorare?

Sto lavorando ad un disco, che potrebbe anche essere il mio prossimo disco, molto meno arrangiato, ma più suonato dal punto di vista chitarristico. Vorrei avere ospiti in questo disco tutti i chitarristi che stimo e con cui ho collaborato, tra tutti Kaki King, una musicista newyorkese straordinaria con cui ho avuto il piacere di lavorare, e Carmelo Pipitone dei Marta sui Tubi. Mi piacerebbe invitare i chitarristi per una collaborazione a livello strumentale. Ad ottobre, insieme al disco con Pier, uscirà anche un ep che conterrà sei- sette canzoni rimaste fuori da La vista concessa, quindi figlie di quel periodo, ed anche la mia versione di Calore, il brano che ho scritto per Emma, e se ce la faccio il disco vero e proprio dovrebbe appunto uscire ad aprile, con uno stile molto minimal, molta chitarra e pochi arrangiamenti.

Sei un artista eclettico, oltre alla musica crei anche piccoli oggetti con il pongo e la plastilina. Stai pensando anche a qualche progetto di questo tipo?

Ogni tanto mi viene in mente di fare qualcosa, per adesso avevo il sogno e l’obiettivo di suonare molto di più dal vivo rispetto agli ultimi anni. Mi sono concentrato su questo e resta poco tempo. La mia passione è la musica, poi non so, se tra qualche anno mi viene la voglia di iniziare a lavorare sulla plastilina in maniera più continuativa farò anche quello. Ad esempio sul video di Dicembre (realizzato con la tecnica “a passo uno”con oggetti di plastilina, ndr)  c’ho lavorato per un anno, bisogna avere tempo e tranquillità per fare una cosa del genere, all’epoca ne avevo perché suonavo di meno, adesso non ci riuscirei mai. Mi piace tantissimo suonare sia nel mio tour che con il giro di cantanti-attori romani, essere presente in decina di dischi sparsi per il mondo o suonare le chitarre nel disco dei Planet Funk. Realizzare oggetti con il pongo mi viene facile, ma non è questa la mia vera passione, preferisco la musica.

 

www.myspace.com/robertoangelini

 

 

Stefano Mariantoni è un insegnante e giornalista reatino. Dopo aver ricevuto diversi premi e riconoscimenti è arrivata anche la pubblicazione di “Curvadivita”, una raccolta di racconti sul tema dell’adolescenza, e due fiabe per bambini. Lo abbiamo incontrato per conoscere meglio il suo percorso artistico e le sue passioni.

 1- Da giornalista sei abituato a fare interviste più che a riceverne. Com’è trovarsi dall’altra parte?

 E’ strano, all’inizio non ti ci ritrovi, però alla fine ti piace perché puoi sperimentare come allo specchio quello che hai già vissuto dall’altra parte. Non ho mai avuto interviste preparate, mi sono sempre sentito un po’ impacciato perché non sono velocissimo ad afferrare subito la risposta adatta, magari mi si aprono parentesi improprie, per questo mi metto a scrivere, perché a voce per me è più difficile comunicare, mentre con la scrittura puoi correggere, sistemare, farti una scaletta mentale. Comunque è bello poter rispondere alle domande, a me piace.

 2- Quando hai iniziato ad appassionarti alla scrittura e cosa consiglieresti ad un ragazzo/a che vuole iniziare a farlo?

Io ho iniziato a provare ammirazione ed attrazione per qualsiasi cosa trovavo sulla carta, nero su bianco. È un mio istinto naturale, andare a scoprire il modo di scrivere della gente, gli stili. Non mi sono mai soffermato sui contenuti quanto sulle modalità comunicative di chi scriveva. I libri che mi sono piaciuti di più sono quelli che mi hanno dato un transfert in questo senso, non tanto cosa è stato detto, ma il come. Io consiglierei ai ragazzi che vogliono iniziare a scrivere di farlo, perché le passioni vanno assecondate, non bisogna tenersele dentro perché ci dicono che è difficile, o che non ce la faremo mai. Ci saranno tanti tentativi di scoraggiamento, io stesso ne ho incontrati tanti, spesso me li sono creati anche da solo per colpa di una mia sfiducia, però se uno ha questa voglia la deve portare avanti con molta umiltà e voglia di imparare, non bisogna mai sentirsi arrivati, non bisogna avere un approccio presuntuoso alla scrittura, anche quando si ottengono dei premi o dei riconoscimenti, piccoli o grandi che siano.

 3- Il tuo primo libro di racconti, “Curvadivita”, racchiude sei storie eterogenee, ma accomunate da un filo conduttore comune: un evento, interiore od esteriore, che dona una maggiore consapevolezza al protagonista. A cosa ti ispiri solitamente per scrivere? Quanto c’è di autobiografico?

In questo primo mio tentativo di cimentarmi nella narrativa, prima mi ero sempre occupato di cronaca, ho cercato di mescolare i ricordi, le sensazioni, gli stati d’animo con qualcosa di inedito, non ho guardato molto il filo conduttore, non è stato il mio obiettivo, se l’ho creato l’ho fatto in maniera inconsapevole. Le storie hanno strutture, modalità comunicative ed argomenti molto distanti tra loro, forse questa è una pecca del libro. Sono comunque racconti legati al tema della giovinezza, vista sotto diverse sfaccettature, perché è una fase che mi sento di poter raccontare per averla vissuta in maniera quasi completa, dato che non sono più un adolescente. Credo che scrivere sia anche un po’ l’arte di mettersi nei panni degli altri, come ho fatto in “Curvadivita”, i personaggi esistono già, ce li hai dentro, devi soltanto riuscire a tirarli fuori. Sono loro che si servono di te per farsi conoscere, ti dicono come devi raccontarli. L’ispirazione viene un po’ dalle idee, dalla voglia di scrivere qualcosa di bello, qualcosa di nuovo.

 4- Oltre ai racconti, ti sei occupato anche di fiabe, scrivendo libri per bambini come “Giraluna” e “Betto il cassonetto”. Ce ne vuoi parlare?

“Giraluna” è nata una mattina in cui stavo andando a Roma alla conferenza stampa di presentazione dei giochi nazionali di Special Olympics del 2008, e accanto all’autostrada, all’altezza di Settebagni, c’era questo campo di girasoli enorme e mi sono immaginato che ce ne fosse uno rivolto dall’altra parte. C’è questa metafora della diversità, del girasole che la pensa in maniera diversa, che si distingue dagli altri, che vuole inseguire i propri sogni, le proprie aspirazioni. È un po’ quello che vivono questi ragazzi speciali con cui spesso mi trovo insieme grazie a Special Olympics, a cui il libro è dedicato. È stata una storia molto fortunata, ha avuto un percorso di diffusione molto ampio, soprattutto nelle scuole, con i bambini curiosi di leggere questa storia, e mi ha reso molto orgoglioso. Non mi aspettavo di scrivere per i bambini, però mi è venuto naturale, mi piace anche aggiungere curiosità, piccole informazioni scientifiche che possono arricchire chi legge. 

“Betto il cassonetto” è stato invece il tentativo di coinvolgere i ragazzi che frequentano la scuola con il sostegno in un’attività teatrale, ed ho pensato questa storia sul riciclo in cui i rifiuti si ribellano perché non vogliono stare insieme e creano scompiglio nella scuola. Da quello che era un brogliaccio, una paginetta, ne è nata una storia, Lucia Ricciardi ci ha messo i suoi colori ed abbiamo creato un libro che si presta molto ad entrare nelle classi per proporre un’attività ambientale, dare una mano a capire meglio le regole sulla raccolta differenziata e sull’importanza del riciclo. Potrebbe rientrare tra i vari progetti che il prossimo saranno presenti in qualche offerta formativa scolastica, come un percorso di lettura da affiancare ad incontri con gli esperti.

 5- Libri nel cassetto? C’è qualche progetto a cui stai lavorando o che partirà a breve?

Ho un libro che non ho mai pubblicato, un romanzo breve che non sto promuovendo più di tanto, ma che potrebbe essere una futura pubblicazione. Sto lavorando anche ad un racconto per ragazzi, ma è ancora tutto da sviluppare. Ho pubblicato l’incipit su “Friends”, il mensile gratuito dedicato ai bambini che esce da qualche mese a Rieti, e loro mi hanno chiesto di scrivere un inizio di racconto, che poi sarà sviluppato dai ragazzi. Io comunque scriverò la mia storia e poi le confronteremo. In programma ho anche un libro che ripercorre il meeting di atletica di Rieti, ci sto lavorando da diversi mesi e lo dovrò arricchire con i ricordi del direttore Sandro Giovannelli, che non trovandosi mai in Italia faccio un po’ fatica a rintracciare. Il progetto è stato appoggiato dalla Biblioteca di Rieti e da un finanziamento regionale.

 6- E libri sul comodino? Quali sono gli autori che ti hanno più arricchito ed influenzato nel tuo percorso artistico?

All’inizio della mia carriera di lettore, che è stata tardiva lo ammetto, ho letto prevalentemente testi scolastici che venivano proposti dagli insegnanti. Più tardi mi è venuto un bell’appetito letterario, ed ho iniziato con Baricco, De Carlo, la Mazzantini, Ammaniti, ho letto anche Fabio Volo, che viene denigrato dai puristi, ma riesce a trasmettere una certa leggerezza, ed è apprezzabile secondo me. Poi ho conosciuto Erri De Luca, che mi ha dato molto a livello di sensazioni, mi ha fatto vivere un po’ la sua vita, ho ritrovato tante affinità in come vive lui le situazioni, anche se non ho fatto le sue scelte così coraggiose e controcorrente. Mi piace come si pone di fronte all’arte e alla notorietà, è schivo, non cerca il riconoscimento personale e mi ritrovo in questo atteggiamento. Tra gli autori esteri posso dire Salinger, Fritzgerald, ultimamente Foer, ed anche Pennac.

 7- Libri nello zaino? Cosa stai leggendo in questo momento?

Ho finito stamattina l’ultimo libro di Erri De Luca, ora riprenderò l’ultimo di Saviano, come vedi apro delle parentesi non solo nella scrittura, ma anche nella lettura. Sul mio comodino c’è De Filippo, con “Sabato, domenica e lunedì”, una raccolta di racconti di Salinger, un altro libro di Erri De Luca, poi c’è Seneca, ogni tanto mi leggo una lettera a Lucilio, e poi leggo qualche racconto di Gianni Rodari, che fanno riflettere ed allenano la fantasia.

 8- Hai mai pensato di scrivere delle sceneggiature, magari per un cortometraggio o un film?

Sarebbe bello, io adoro il cinema, le creazioni che possono poi sfociare in una produzione cinematografica. Mi piacerebbe, a volte credo che alcune cose che ho scritto si presterebbero a questa cosa, però serve una bella storia strutturata su vari livelli, che abbia un corpo più consistente rispetto a quello che ho scritto finora. Ma forse non devo essere io a chiederlo, se magari qualcuno pensa che ne valga la pena, magari arriverà anche questo. So che vorrei migliorare la mia formazione proprio con un corso di sceneggiatura, perché fa bene alla scrittura, ti aiuta a descrivere meglio le scene, i paesaggi, le situazioni.

 9- Qual è stata la tua soddisfazione più grande dal punto di vista artistico?

Non so se dire quando ho scoperto che avrei pubblicato il libro, avendo vinto il concorso della casa editrice Cinquemarzo. Lì c’è stata una bella esultanza, però per me le soddisfazioni più grandi sono quando posso mettere il punto finale, quando posso spegnere il computer sapendo che la storia è finita, al di là di quello che poi penserà la gente. Perché già mi rendo conto di quello che è venuto fuori, so il sacrificio, l’impegno, poi come andrà andrà, ma di solito se una cosa piace tanto a me piace parecchio anche agli altri. Lascio andare la storia tra la gente, la lascio camminare con le sue gambe verso gli altri, e se lo faccio vuol dire che ci credo, anche perché non pubblico tutte le cose che scrivo.

 10- E quella che vorresti raggiungere?

 Mi piacerebbe raggiungere la scrittura di un romanzo, di una storia che possa essere chiamata tale, con una struttura narrativa romanzesca. Per me non è facile scrivere storie con orizzonti narrativi dilatati, vorrei dedicare del tempo a questa cosa, per vedere se sono capace. Ho scritto cose che si avvicinano al romanzo breve, ma voglio andare oltre, voglio puntare su questo. Speriamo di arrivarci, speriamo che me la cavo. 

Patrizio Maria è un giovane cantautore italiano, che si muove tra Roma e Londra per proporre canzoni ironiche e fuori dagli schemi, con uno stile unico ed originale. Dopo aver aperto i concerti di artisti come Pierangelo Bertoli, Francesco De Gregori ed Alberto Camerini, nel 2009 esce il suo primo album “India Londinese”, trascinato dal singolo “Killer” in tutte le programmazioni radiofoniche. Con quasi 5000 copie vendute e tanti concerti all’attivo, Patrizio è ora al lavoro sul secondo disco “Banana Confused”.

1-      E’ in programmazione radiofonica in questi giorni il tuo brano “La Scarpa”. Ce ne vuoi parlare?

Partirà questi giorni la programmazione  del mio prossimo singolo “La Scarpa”. Sono molto contento che  questo brano sia in qualche modo ascoltato e magari richiesto, perché è una canzone a cui tengo molto. È una metafora naturalmente. “La Scarpa”, oltre a parlare della mia mania per le sneakers dalla stellina blu- ne ho circa 598 paia di tutti i colori e modelli-, vuole significare una cosa soltanto: dobbiamo camminare, camminare, camminare con passi colorati lasciando nell’asfalto nero e fastidioso le nostre orme piene di spensieratezza, facendo capire a tutti che  il miglior  modo per crescere  è  quello di giocare. Io a questo punto della mia vita mi sento finalmente maturo, come  un bambino dell’asilo.

2-      Il tuo primo album, “India Londinese”, è uscito circa un paio di anni fa ed ha venduto quasi 5000 copie. Sei al lavoro su un nuovo disco?

Sì, un numero di copie vendute altissimo per un cantautore indie, soprattutto se consideriamo il fatto che in Europa, forse l’Italia ha il pubblico che attualmente segue meno la musica e la cultura in generale. Cinquemila copie sono tantissime e ancora non riesco a credere a questa cosa. Ogni tanto mi pizzico e dico “Ahò, ho venduto tutte queste copie!” E’ una grandissima soddisfazione considerando il problema commerciale, economico e  la distrazione  collettiva. Sto registrando il nuovo album nella mia amata Londra, una città che mi dà stimoli pazzeschi. Il disco si chiamerà “Banana Confused” e conterrà 11 brani e qualche  ghost track. Sarà un disco coloratissimo, pieno di sperimentazioni, sonorità indiane ed elettroniche, dove la mia chitarra semiacustica farà più da collante con la voce da collegiale francese del ‘700 rispetto al primo album. Parlo della mia vita e di quello che mi accade senza troppi fronzoli, mi affascina  il sociale  ma anche  le cose assurde e surreali mi divertono molto. Mi ritengo uno scrittore psichedelico che suona in  una band freak rock indie. Ahhahaha. Diciamo che  sono un Mod mancato.

3-      La tua voce è stata spesso paragonata a quella di Ivan Graziani. Sei d’accordo?

Questa  è una storia vecchissima. In Italia purtroppo quando non si può spiegare a parole una piccola novità si tende a mettere marchi ed etichette, che trovo di cattivo gusto e molto antipatiche. Ivan è stato, se vogliamo, il mio maestro, mi ha insegnato moltissime cose  e gli sarò sempre grato. Ma credo di avere  una vocalità diversa e di cantare  in maniera molto differente. Uguale perché  voce sottile? Allora perché non Paul Simon, perché non Sting? Oppure perché non gli italianissimi Mango, Nico Di Palo, Andrea Parodi? Ecco, penso di averti risposto. In Italia non si ascolta bene. La cosa che mi spiace è che così dicendo molti non solo non hanno ascoltato bene  me, ma  non hanno ascoltato bene Ivan. Se ti metti una tegola in testa  in Italia  ti scambiano per  un monolocale  e tutti avanzano il diritto di coprirsi sotto le tue spalle. Strana gente! Anzi, normalissima.

4-      Che tipo di musica ascolti e quali sono gli album che hanno segnato la tua vita?

Ascolto la musica. Ascolto quello che mi va senza troppe etichette, anche se  poi ho le mie preferenze. Amo la musica  indie  beat rock degli anni ‘60, soprattutto quella anglosassone. Beatles, Small Face, Stones, The Who, etc. Amo chi ricerca e chi non si fossilizza. Mi divertono nuove realtà indipendenti. Trovo geniali i Pulp, fantastici i Kula Shaker. Insomma sto sul britannico, ma ogni tanto un Morricone  ci entra di diritto e di dovere. La musica mi deve incuriosire e divertire, se diventa pesante  per me  non è più musica e preferisco passare  il phon su un pettine  e  rompere  un bicchiere. Noise!

5-      In una società dominata dalla tecnologia, tu come ti muovi per promuovere la tua musica?

Per fortuna ho una piccola etichetta indipendente che in maniera free ed indipendente segue la mia ombra. I canali come Myspace, Facebook, You Tube, sono importanti per noi emergenti indipendenti, però poi ci devi mettere altro. La stampa, qualche passaggino televisivo (in trasmissioni culturalmente  ben fornite, altrimenti sto a casa a cucinare muffin al mirtillo) ed  i live che sono fondamentali per misurarti con la gente, per fare palestra teatrale e letteraria e  poi non seguire per forza le cose  in maniera maniacale, ma piuttosto riservarsi sempre quell’incoscienza primitiva e  spensierata che aiuta a non soffrire troppo.

6-      Se potessi scegliere di collaborare con un artista chi preferiresti e perché?

Dato che cambio spesso idea e giro e rigiro le canzoni secondo il mio stato attuale sfido chiunque a collaborare con Patrizio Maria! Ahahahah! Beh, mi piacerebbe collaborare e scambiare idee, più che con musicisti, con registi o autori teatrali. Spesso il musicista si comporta da sollevatore di pesi e  si autocelebra con mille scale e mille tecniche pesanti. Io credo nell’arte rinascimentale, quindi che ne so, magari mentre tengo una tigre al guinzaglio e una scimmia mi salta  in testa, mi si apre  una scarpa e  inizio a suonare, mentre dietro c’è un mimo che  raccoglie  le ombre invisibili della gente che non ha capito cosa sta vedendo.

7-      Hai qualche concerto in programma in questo periodo? Dove ti possiamo seguire?

Vengo da  un piccolo tour invernale molto buono. Ho fatto circa 60 date. L’altra sera sono stato ripreso anche da Tg2 Mizar! Mi sto alternando tra la sala di registrazione, quindi Roma- Londra, e qualche apparizione sporadica. Ma già dal 17 giugno saremo in piazza a Genzano (Roma). Quindi siete tutti invitati, non mancheranno note, parole, caramelle, colori, muffin e capriole indie. W il lupo a tutti!


www.myspace.com/patriziomaria


Sono sulla scena musicale da più di vent’anni, ma sembra che il pubblico ed il cinema li abbiano scoperti solo ora. Colonne sonore, letteratura e collaborazioni, fino al “Primo lunedì del mondo”, quinto album profetico, un buon auspicio per una nuova alba, un nuovo inizio. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Simone Lenzi, voce e mente del gruppo, in occasione del loro concerto reatino.

1- Rientrate a pieno titolo nell’albo dei gruppi alternativi italiani con il nome più originale. A cosa si ispira il vostro?

È un nome che risale ormai a venti anni fa, stavamo cercando un nome, eravamo a Pisa all’orto botanico, c’era una pianta che si chiamava Virginiana Miller e decidemmo per quello, perché non è un nome che ci avrebbe etichettato. Se ti chiami “Sepultura” uno si aspetta che tu faccia determinate cose, se ti chiami Virginiana Miller sei un po’ più libero!

2- È uscito quest’anno il vostro quinto album “Il primo lunedì del mondo”, che vanta diverse collaborazioni con il cinema, una ne “La prima cosa bella” di Paolo Virzì e l’altra nel film “Cosmonauta” di Susanna Nicchiarelli. Come nascono questi connubi?

Non nascono da noi, ma fortunatamente da loro. Nel caso di Susanna Nicchiarelli, lei ha fatto un film che rientra nel genere dei “musicarelli” degli anni ‘60 e qui ci sono delle canzoni che fanno da colonna sonora e a noi aveva chiesto di rifare “E’ la pioggia che va” dei Rokes. Nel caso di Paolo Virzì c’è un piccolo pezzo di “L’angelo necessario” che è in sottofondo in una scena del film, penso che sia stato da parte di Paolo un atto carino nei nostri confronti di cui siamo stati molto felici, anche perché è un film che personalmente ho amato molto. Poi nel nostro video “Acque sicure” ci sono degli inediti tratti proprio dal film, è stato proprio un atto dovuto!

3- A proposito di collaborazioni, avete lavorato anche con diversi gruppi della scena italiana, insieme ai Baustelle e a Giorgio Canali nel brano “Malvivente”, e avete suonato diverse volte accanto ai Perturbazione. Ci sono altri progetti in cantiere su questo fronte? Con quali artisti italiani vi piacerebbe lavorare?

Artisti con cui ci piacerebbe collaborare ce ne sono diversi, io credo che ci siano diversi modi in cui possano nascere. Uno di questi è dire “cerco di tirar dentro il nome grosso, indipendentemente da quello che ci voglio fare perché avrò un rientro in termini di notorietà, di immagine, etc”. Io non credo molto in questo tipo di collaborazione, credo che uno debba avere un progetto e poi per quel progetto trova le collaborazioni migliori. Per esempio quando girammo il video di “Malvivente” la faccia di Canali era perfetta! Artisti con cui vorremmo lavorare ce ne sono davvero tanti, non voglio fare dei nomi, ma ce ne sono.

4- Simone, in tutti i tuoi testi c’è spesso un riferimento letterario, che a volte non si ferma alla mera citazione – come nel caso di “Abitano la terra”, tratto da “Profugiorum ab Aerumna Libri” di Leon Battista Alberti – Da cosa ti lasci ispirare per scrivere?

Il fatto che i testi abbiano un valore letterario mi fa piacere sentirlo dire, però rimangono per me testi di canzoni. Poi è vero che dal punto di vista letterario risentono di letture ma semplicemente perché le letture sono eventi della vita al pari di altri. Quando scrivi parli di incontri speciali, come a volte sono i libri che leggi. Nel caso di Leon Battista Alberti, volevo dare l’idea di quanto fosse viva e musicale la lingua italiana in quegli anni, ricca di sfumature che si sono un po’ perse oggi, i media hanno standardizzato ed appiattito il livello linguistico italiano.

5- Quanto è difficile per un gruppo indipendente come il vostro, che non ha alle spalle una grande casa discografica, farsi conoscere e fare musica il Italia?

Io credo indubbiamente che sia difficile, e che alle lunga possa diventare impossibile, se non accade quello che per fortuna è capitato un po’ a noi, nel senso che suonando e facendo dei dischi e promuovendoli con i mezzi che avevamo alla fine si è creato un pubblico. Il fatto che tu abbia un pubblico è la cosa che comunque ti garantisce la possibilità di andare avanti, se non ci riesci è inevitabile che tu desista. I dischi si fanno se poi li vendi, se non vendi puoi comunque farli, ma diventa un esercizio sterile. Per “pubblico” non intendo un fattore quantitativo, ma qualitativo, serve per avere un ritorno, per sapere che qualcuno aspetta quello che fai.

6- Il vostro ultimo album si intitola “Il primo lunedì del mondo”. Qual è il significato che volete trasmettere con questa metafora?

Se pensi che il disco viene dopo quattro anni da “Fuochi fatui d’artificio”, in questo lasso di tempo è come se ci fosse stata una lunga domenica, dove per domenica si intende quella giornata non particolarmente attiva e felice. Dato che veniamo da fuochi d’artificio diciamo che è stata un po’ la domenica delle salme! C’era anche la difficoltà di trovare un’etichetta che volesse produrre il disco, dato che la Fandango aveva smesso di farne, e ci siamo dovuti guardare intorno. Il primo lunedì del mondo è un augurio, l’idea che ci sia qualcosa da fare, e che sia bello farlo soprattutto. Il disco sta andando bene, è alla terza ristampa, sta ricevendo molto consenso dalla stampa, è disco della settimana sul Venerdì di Repubblica, ne hanno parlato bene più o meno tutti. L’impressione che abbiamo è proprio che ci sia più pubblico, più interesse, più attenzione. Siamo riusciti a fare qualcosa che, senza perdere di qualità, di intensità e di identità, avesse però un’immediatezza maggiore rispetto ai lavori precedenti. È un disco in cui crediamo sicuramente.

7- Vi lascio con una provocazione: se il prossimo anno veniste scelti da un eventuale direttore artistico per partecipare al Festival di Sanremo, cosa rispondereste?

Magari! Cercheremmo di fare ciò che abbiamo sempre fatto! Il problema non è nostro, è di Sanremo. Nell’ultimo disco ci sono canzoni come “Lunedì” o “L’angelo necessario” o “La risposta” che potrebbero tranquillamente essere ascoltate a Sanremo. Se a Sanremo questi pezzi non li vogliono è un problema di Sanremo, non nostro. Di certo non cambieremo noi, cambierà Sanremo! Sicuramente ci farebbe piacere andarci, è un grande evento mediatico.

Lo abbiamo conosciuto qualche anno fa in veste di rapper metropolitano e come emblema del cosiddetto “coatto” romano. Ora, a dieci anni di distanza, Tommaso Zanello, in arte Piotta, torna sulla scena in una rinnovata veste rock e come produttore di gruppi indipendenti. Lo abbiamo incontrato per parlare dei suoi progetti ed ecco cosa ci ha raccontato.

Sei da qualche anno, oltre che musicista e cantautore, anche produttore, con la tua etichetta La Grande Onda. Come è nata l’idea di aprire una tua label?

E’ nata dal fatto che da quando sono piccolo mi autoproduco. Prima le demo, poi il successo underground dei mixtape, infine i primi brani fino al primo contratto discografico. Ho sempre lavorato in ambito indie, quindi ora che è il mercato è in crisi sono avvantaggiato dal fatto che so come muovermi al meglio anche con piccoli budget, e mi sto levando parecchie soddisfazioni. Detto questo è il quinto anno di attività de La Grande Onda con un bellissimo rapporto con la critica e la stampa in genere, con le radio alternative e qualche capatina tra radio e tv più commerciali, il tutto all’insegna della qualità, dato che ragiono con la mentalità di un artigiano internauta!

Tra i gruppi che sono “sotto la tua ala protettrice” ci sono i Lemmings, una delle rivelazioni della scena italiana, che suoneranno insieme a te venerdì 22 all’Auditorium Parco della Musica. Come ci si sente a suonare in uno dei luoghi “sacri” della musica?

L’ala la lascerei ai potenti veri, dai politici agli industriali! Diciamo che trattandosi della intelligente manifestazione chiamata Generazione X siamo entrambi molto contenti di esserci e di fare un bel sacrilegio a base di scratch e riff distorti.

Per quanto riguarda il tuo percorso personale è uscito da pochi mesi S(u)ono diverso, anticipato dall’omonimo singolo, a cui hanno collaborato diversi nomi della scena underground romana (Lemmings, Masoko, Truceclan). La possiamo definire una svolta rock?

E’ uscito da poco più di due mesi ed è una svolta sonora figlia del Warped Tour. Svolta che accompagna una mia ulteriore e molto personale crescita, dal punto di vista umano e testuale. Politica, meritocrazia, società, razzismo, tv, ambiente, etc… Ce n’è per tutti con serietà ed impegno. Un disco combat che fa poco sorridere, molto cupo!

Oltre alla musica sei attivo anche sul fronte della scrittura, con un’autobiografia ed un libro su Jovanotti. Hai in mente altri progetti di questo tipo?

Assolutamente si! Ora sono preso dalla realizzazione del video del prossimo singolo “A testa alta” previsto per fine marzo. Seguirò quello estivo con la seconda parte del tour e poi dall’inverno prossimo si torna in studio per i pezzi nuovi e nell’oscurità della notte a scrivere il terzo libro.

Per quanto riguarda le collaborazioni, c’è qualche gruppo o artista a cui si senti particolarmente vicino e con cui ti piacerebbe lavorare, sia dal punto di vista di produttore che di musicista?

Sì, Franco Battiato, un esempio per tutti i giovani artisti di rigore e di lontananza da un certo modo di fare spettacolo.

La nuova generazione di cantautori propone un altro interessante esordio: quello di Giuseppe Di Gennaro, che presenta in questi giorni L’abitudine, primo singolo di un progetto più ampio dal titolo Multiforme Uno, e dal primo dicembre su YouTube con il rispettivo videoclip. Milanese di nascita, ma con forti influenze salentine, Giuseppe si relaziona alla musica sin da piccolo, grazie al padre musicista, alle diverse scuole di musica frequentate e all’amore per la scrittura vista come un’esperienza vitale. Lo abbiamo incontrato per un’intervista proprio in questi giorni ed ecco cosa ci ha raccontato.

È uscito da poco il tuo primo Ep Multiforme Uno, che racchiude alcune delle tematiche che ti sono più a cuore.  Ce ne vuoi parlare?

Racchiudere in canzone delle tematiche “diverse” rispetto a quelle che sono più in voga so che è cosa ardita e rischiosa da fare, specie per chi si presenta al primo lavoro discografico, ma in fondo io mi sento lontano da certi calcoli e questo fa parte del mio modo di vedere la musica. Nel caso in questione il mio primo Ep, Multiforme Uno, contiene tre pezzi, dove ognuno porta con sé un suo motivo, nonostante il filo comune dell’invito alla costruzione dei rapporti nel tempo. Ne L’orologio ho cercato di affrontare il tema dell’inquietudine generazionale, visto attraverso il bisogno di recuperare la propria visione del mondo, oggi così messa a rischio da altre visioni spesso puramente strumentali. Mi riferisco, senza moralismi, all’idea che ognuno possa fare la propria strada mettendo a disposizione le sue capacità e rimanendo se stesso.  E’ un tema a me molto caro che riflette la società contemporanea, come del resto quello del brano seguente, L’abitudine, dove parlo del rischio di assuefazione dato dal non porsi più delle domande nelle azioni che si compiono, attraverso un ritornello a doppia chiave di lettura, sulla falsa riga della Lode al dubbio di Bertold Brecht, (al dubbio deve seguire l’azione) dove mi chiedo se non ci sia bisogno di più pensiero e movimento. Infine nella canzone di chiusura,  Canzone notturna, il tema è quello di una ninna nanna fatta di immagini e metafore in movimento da cui emergono dei consigli positivi e delle dolci proposte per attraversare la notte.

Quali sono le tue fonti di ispirazioni per la scrittura dei testi? Quanto c’è di autobiografico nelle tue canzoni?

Possono essere le persone che incontro, le situazioni che vivo, le cose che leggo e che vedo, le mie riflessioni, i viaggi che faccio, le culture che conosco, che, unite all’immaginazione, mi fanno trovare questa fonte di ispirazione per la scrittura. Non c’è un criterio mai uguale a se stesso,  può essere una o tutte le cose messe insieme. Per fare un esempio in Canzone notturna sono finiti dentro molti elementi: come una reinterpretazione personale di un episodio di Santiago de Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, una parte di influenza dalla legge di causa-effetto venutami probabilmente dai primi fervori buddhisti di mia madre, insieme ad una forte ispirazione immaginativa alimentata, credo, dalla voglia di sostenere una persona con cui ero coinvolto sentimentalmente.

Con quali artisti del panorama italiano ti piacerebbe collaborare? Cosa ascolti e ti piace?

Mi piacerebbe collaborare con Franco Battiato, Francesco De Gregori, Cristina Donà, Daniele Silvestri, Ligabue, Frankie Hi NRG, Ludovico Einaudi e molti altri. Solitamente ascolto generi diversi che vanno dai Radiohead a David Grey, dalla musica contemporanea al brit pop, da Nick Drake ai Sigur Ròs, dalla musica classica al jazz e mi piace spulciare tra gli artisti della scena indie pop che in diversi casi fanno delle produzioni secondo me interessanti, al pari di quelli che chiamiamo “big”.

Quanto è difficile per un artista emergente promuovere il proprio lavoro? Tu a cosa ti affidi?

Con i tempi che corrono nell’industria discografica oggi credo sia fondamentale il rapporto con la rete, i live e le radio aperte e indipendenti, proprio i canali che sto utilizzando, cercando di non dimenticare per quanto possibile la credibilità e il valore di ciò che si propone.

Un mezzo fondamentale per farsi conoscere ed apprezzare e senza dubbio il live. Com’è il tuo rapporto con la musica dal vivo? Ci sono date in programma?

Il mio rapporto con la musica live è interiormente e per analogia come quello che ha lo sciatore con la discesa in pista: un misto di adrenalina e concentrazione. In questo periodo, dopo una serie di presentazioni del disco in radio, sono già pronto insieme alla mia band a portare in giro il progetto. Colgo l’occasione per invitare, quanti lo vorranno, a seguire nel sito www.giuseppedigennaro.it o su www.myspace.com/giuseppedigennaromusic le date live che pubblicheremo nel prossimo periodo.

È uno dei cantautori più interessanti della scena milanese, e dopo l’incoraggiante esordio di Lucida nel 2007, Giuliano Dottori torna con Temporali e Rivoluzioni, a conferma del suo talento di songwriter e musicista. Lo abbiamo raggiunto per un’intervista ed ecco cosa ci ha raccontato.

È uscito lo scorso venerdì 6 novembre il tuo secondo disco Temporali e Rivoluzioni, registrato negli studi di Mauro Pagani e con la produzione artistica di Giovanni Ferrario (tra le collaborazioni ricordiamo Morgan, John Parish e PJ Harvey). Ce ne vuoi parlare?

È un disco diretto e criptico allo stesso tempo, molto urgente dal punto di vista emotivo, molto reattivo. Sono dieci tracce scritte e registrate in poco tempo. Giovanni Ferrario è senza dubbio il responsabile del suono di questo disco, un suono crudo ma caldo.

Oltre alla carriera solista suoni da diversi anni negli AtleticoDefina e negli Amor Fou. Ci sono altri artisti con cui ti piacerebbe collaborare?

Premesso che l’esperienza con gli Atleticodefina è finita da circa due anni, al momento cerco di concentrarmi sul mio progetto cantautoriale e sugli Amor Fou. In generale non vado alla ricerca di collaborazioni, mi piace quando le cose succedono con quel briciolo di casualità sufficiente a renderle magiche. Detto questo, mi piacerebbe fare qualche esperienza con artisti inglesi, più che altro per imparare.

Da tre anni sei anche direttore artistico del Festival Musica Distesa di Ancona. C’è qualche artista interessante che hai scoperto grazie a questa manifestazione? Ce lo vuoi segnalare?

Di vere scoperte ormai non se ne fanno più, nel senso che tra i social network e i tanti piccoli circuiti è sempre più facile entrare in contatto con artisti nuovi: arrogarsi il merito di “aver scoperto” Ttizio o Caio è una cosa al tempo stesso fastidiosa e ridicola. Quello che ti posso dire è che nel mio piccolo sono onorato di aver chiamato alla prima edizione la band bresciana degli Annie Hall, prima del loro debutto discografico. Mentre a quest’ultima edizione, la terza, ho invitato Thony, una cantautrice davvero straordinaria.

Come nascono i tuoi testi? Quanto c’è di autobiografico e quali sono le altre fonti di ispirazione?

Si comincia sempre dalla propria vita, quando si scrive, o dalle vite degli altri (per citare un film meraviglioso di qualche anno fa) che vengono però sempre filtrate dalla propria sensibilità. Credo che, di questi tempi, non manchino le fonti di ispirazione: la città, gli stili di vita, i rapporti umani sempre più incasellati in categorie, lo schifo della politica, lo schifo del razzismo dilagante, e ancora la ricerca della bellezza, dell’equilibrio. Di contenuti ce ne sono fin troppi! Il problema è la forma, come dire certe cose, quale linguaggio usare.

In concomitanza all’uscita dell’album è iniziato anche il tour. È difficile per un artista indipendente come te suonare in giro per l’Italia? Quali sono le prossime tappe?

È difficile soprattutto fare i conti con situazione tecniche ai limiti. Per il resto si tratta di aver la pazienza di fare migliaia di chilometri in macchina e di nutrirti all’autogrill. Diciamo che se riesci ad accettare questi due aspetti, le possibilità per suonare non mancano, ovviamente con l’ambizione e la speranza di fare mese dopo mese numeri sempre più grossi. A dicembre sarò prima in Toscana e poi  in Campania, mentre a gennaio- febbraio è prevista un’altra tappa romana, oltre ad altre date sia al Nord che al Sud. Il calendario aggiornato è sull’immancabile www.myspace.com/giulianodottori.

Otto OhmE’ uscito lo scorso 16 ottobre il quarto album Combo, produzione totalmente indipendente che sta ottenendo un ottimo riscontro di critica e pubblico. Ne abbiamo approfittato per incontrare gli Otto Ohm nel loro studio di registrazione alle porte di Roma e per fare quattro chiacchiere con la voce del gruppo, Andrea Leuzzi.

Innanzitutto partiamo dalla domanda più scontata, ma anche immediata: perché Otto Ohm?

E’ il primo nome che ci è venuto in mente, avevamo le casse davanti a noi e guardandole abbiamo pensato “Però fico Otto Ohm”, questa è la vera spiegazione, è stato il pretesto per dare un nome al progetto, che poi si è rivelato lungimirante nel tempo.

Sono passati quattro anni dal vostro precedente disco, Naif, come mai tutta questa attesa?

Di solito noi lavoriamo così, non abbiamo mai fatto un disco l’anno, stavolta c’è voluto un po’ di più rispetto agli altri lavori, ma semplicemente perché parlando di cose reali, di vita, c’è bisogno di viverla per poterla raccontare, per poter avere un punto di vista diverso. L’album è la risultante di tanti pezzi, noi arriviamo con una scelta di circa quaranta brani e da lì ne selezioniamo gli undici- dodici che andranno a comporre il disco, che sono il riassunto di quello che abbiamo vissuto. Scegliamo i pezzi che vanno a seguire il filo conduttore che abbiamo voluto dare sin dall’inizio al progetto.

Combo esce come una produzione totalmente indipendente, dopo tre album in cui vi siete appoggiati ad etichette discografiche. Una scelta o un’esigenza?

Abbiamo sempre prodotto da soli il nostro disco, ci appoggiavamo ad etichette, comunque indipendenti, ma solo per una questione di prestigio, non eravamo pronti a gestire in maniera soddisfacente tutto. A noi piace fare la musica, e vorremmo fare esclusivamente questo, ma il mercato ti porta a fare questa scelta. Poi negli anni riesci a maturare una serie di contatti, che spesso sono anche amici, che ti aiutano a veicolare il progetto, a ricavarti uno spazio. Abbiamo sempre portato una creazione completa da tutti i punti di vista, oltre ai brani anche la copertina, è un nostro lavoro a 360 gradi.

Tra le collaborazioni vantate quella con Daniele Silvestri, con cui avete scritto il brano A me ricordi il mare. Come nasce questo rapporto artistico? Ci sono altri musicisti con cui vi piacerebbe lavorare?

In realtà io Daniele lo conosco perché agli albori degli Otto Ohm avevo una ditta di traslochi, ed uno dei primi che ho fatto è stato quello a casa di Daniele Silvestri. Poi ci siamo rincontrati artisticamente circa dieci anni dopo, lui stava lavorando al disco (Il Latitante, ndr) e sono andato a casa sua a Fregene un paio di volte, lui è venuto altre volte qui da noi ed in poche ore è nato il pezzo. Per quanto riguarda le collaborazioni, in Italia ci sono molte realtà valide, ma è un tipo di progetto che deve nascere spontaneamente a mio avviso, non deve essere un accordo tra etichette. Un’artista che ho riscoperto ultimamente e con cui ci piacerebbe lavorare è Cristina Donà.

Com’è il vostro rapporto con la scena indipendente italiana? Cosa ascoltate e vi piace?

Di base io ascolto la stessa musica da sempre, con qualche incursione nuova, ma non sono gruppi italiani. Del nostro panorama musicale, come dicevo, mi piace molto Cristina Donà, e la vena rock che sta uscendo in questi anni, è una bella riscoperta. Mi è piaciuto Bugo, che ha maturato nel tempo un suo stile, poi gli Afterhours, i Marlene Kuntz, ma ci sono anche altre decine di realtà, come alcuni gruppi reggae che sono sopravvissuti nel tempo. Certo se accendi la tv la situazione è piuttosto sconfortante, per chi vuole andare oltre il livello strettamente commerciale c’è poco, anche se poi quello che piace davvero alle persone sono spesso produzioni indipendenti.

E con le nuove tecnologie? Quanto sono importanti per la promozione?

Internet ha ribaltato totalmente la situazione, non sono più le radio a dettare cosa piace o non piace alla gente, a decidere cosa compreranno le persone. Su internet scegli cosa ascoltare, scopri gruppi nuovi ed ha molto più valore un video visto trecento volte su You Tube rispetto a quello passato in tv mille volte. Per fortuna questo dà la possibilità ai gruppi di venire fuori, come è successo anche noi, stiamo cavalcando quest’onda, lo stesso vale anche per l’acquisto della musica, puoi farlo direttamente dal computer o dal cellulare.  Anche il download fatto illegalmente ha un suo valore promozionale, magari scarico un disco, lo ascolto tutta l’estate, mi piace e decido di comprarlo, oppure mi vado a vedere il concerto. Comunque crea quel tipo di interesse, non funziona più il passaggio in radio o il martellamento di uno spot pubblicitario, non c’è più quel parametro per cui “se io spendo un tot mi rientra tot”.

MySpace: www.myspace.com/ottoohm

Sito internet: www.ottohm.com

Alessandro GrazianIn un panorama musicale in cui sembra che l’aspetto cantautorale stia perdendo man mano spessore ci sono delle eccezioni che fa piacere scoprire e conoscere, come è successo con Alessandro Grazian,  giovane talento padovano, che suonerà al Lian Club di Roma il prossimo 12 novembre. Per tutti coloro che fossero interessati a saperne di più, rimandiamo al link MySpace: www.myspace.com/alessandrograzian

E’ uscito pochi giorni fa il tuo ultimo Ep L’abito, ce ne vuoi parlare?

L’Abito contiene 5 canzoni scritte quest’anno durante il tour di Indossai. Tra le cose che mi hanno spinto a questa pubblicazione c’era il bisogno di fare un’istantanea della mia vita e di dare una nuova testimonianza discografica prima della fine del decennio. L’Abito è una continuazione di Indossai ed è l’occasione per rivendicare la mia cifra stilistica.

Com’è attualmente essere cantautori in Italia? Trovi che sia più difficile emergere rispetto al passato?

È una domanda complicata, anche perché il passato che ci arriva e sempre un po’ romanzato: difficile dire come andava il mondo quando non c’ero. Di certo sono cambiate moltissime cosa dai tempi in cui i cantautori interpretavano più o meno consapevolmente i sentimenti delle persone. In questo periodo la società italiana è più disinteressata all’ascolto e alla cultura rispetto ad una volta e  per questa ragione il talento non è sufficiente per emergere.

Quando hai scelto di dedicarti alla musica? Esiste veramente un momento in cui si capisce che è quella la strada da seguire?

Potrei rispondere che è stata la musica a scegliere me, ma suonerebbe troppo romantico. La voglia di fare musica mi ha sempre accompagnato e avere pubblicato finalmente il mio primo disco 5 anni fa mi ha aiutato a dare fiducia a questa mia passione.

Oltre che alla musica sei apprezzato anche come pittore, quale delle due attività senti più vicina? Si ispirano a vicenda?

Pittura e musica sono intrecciate tra loro e si nutrono a vicenda, ma anni fa ho dovuto sacrificare un po’ la pittura per la musica. Ora nella mia vita ci sono più note che immagini, ma non escludo un ritorno all’arte figurativa e appena avrò le condizioni per farlo ricomincerò a dedicare il giusto tempo al disegno e alla pittura. La passione per il mondo dei pennelli è comunque viva, tanto che in questi giorni sto esponendo i miei dipinti a Milano in una mostra personale.

Per gli artisti indipendenti i concerti sono il punto forte per farsi conoscere ed amare. Com’è il tuo rapporto con il live?

È un rapporto vivo e senza troppe pause di riflessioni; da quando ho esordito sono stato praticamente sempre in tour e anche prima di pubblicare il mio primo disco per anni ho suonato dal vivo le mie canzoni. Fare concerti mi piace e mi aiuta a crescere come artista e come persona.

E con la tecnologia? Funziona davvero la promozione online (Myspace, Facebook, Twitter)?

Il mio rapporto con la tecnologia è sereno. Sono cresciuto frequentando il computer e per quel che riguarda la promozione credo che certi social network (anche se con qualche limite) siano un buon strumento.

RoninSono tra gli esponenti più interessanti nel campo della musica strumentale, la risposta italiana a gruppi come Mogway e Sigur Ros. Abbiamo incontrato la mente del progetto, Bruno Dorella, per una chiacchierata sul nuovo album L’Ultimo Re e sui progetti musicali a cui si sta dedicando. Per chi volesse conoscerli meglio rimandiamo al loro MySpace: http://www.myspace.com/ronintheband

Partiamo dalla domanda più immediata, una curiosità più che altro: come mai questo nome?

Sono sempre stato affascinato dall’eroe sconfitto. Il Ronin è un samurai che ha tradito o ha fallito nel compito che totalizza la sua vita: proteggere il suo padrone. Una volta fallito, è costretto a vagare senza padrone e lavorare come mercenario. Quindi ancora un guerriero, ma reietto.  Pane per i miei denti.

I vostri tre album sono tutti strumentali, come nasce l’idea di scrivere senza un accompagnamento testuale?

Nasce parecchie migliaia di anni fa, quando l’uomo realizzò che battendo su una superficie si otteneva un suono gradevole e ritmico. La musica è stata utilizzata con o senza il canto sin dall’alba dei tempi.

La vostra musica si presta molto naturalmente ad essere colonna sonora cinematografica, come è successo, tra le altre cose, per il film Vogliamo anche le rose. Com’è scrivere per il cinema? Pone delle limitazioni alla libertà artistica?

Scrivere per il cinema è estremamente eccitante ed impone una lavorazione diversa rispetto alla musica strumentale, sebbene molto cinematografica come hai sottolineato. La nostra musica evoca immagini, mentre per una colonna sonora essa deve adattarsi alle immagini. Non è un vincolo alla libertà artistica, anzi, apre nuovi orizzonti e possibilità che non avrei esplorato altrimenti. E’ stata un’ esperienza fantastica che non vedo l’ora di ripetere.

A cosa vi ispirate per scrivere? Ci sono immagini che accompagnano la suggestione musicale?

Ci sono immagini mentali. Per esempio l’ultimo album parte da una frase: “Con le Budella dell’Ultimo Prete Impiccheremo l’Ultimo Re”. Da lì mi sono figurato una sorta di film, di cui ho fatto una colonna sonora immaginaria.

Tu Bruno ti sei occupato anche di altri gruppi e artisti della scena indipendente (ad esempio Bugo), com’è essere produttori in Italia? Hai altri progetti in questo senso?

Essere discografici underground in questo momento è un piccolo suicidio, non solo in Italia. Lo è anche per i gruppi. Firmare per un’etichetta oggi non è come aver firmato negli anni 90, o meglio ancora negli 80 o 70. Oggi per un gruppo sconosciuto conviene autoprodursi e cercare di suonare il più possibile. Io vado avanti con la mia etichetta Bar La Muerte, ma vista la congiuntura economica ho dovuto rallentare molto la produzione. Ora ho appena fatto uscire il nuovo ?Alos (ovvero Stefania Pedretti degli OvO), e sto per fare uscire Bologna Violenta. Punto molto su entrambi i dischi, anche per cercare di sopravvivere come etichetta. Date un’occhiata a www.barlamuerte.com .

Cosa ascoltate del panorama italiano? C’è qualche artista con cui vi piacerebbe collaborare?

Collaboro con molti artisti che mi piacciono, da Claudio Rocchetti agli Zu, da Mat Pogo a Fabrizio Palumbo. Sono un fan della famiglia Troglosound, un collettivo poco conosciuto tra le masse ma con un’ottima produzione e un buon seguito nel mondo del free jazz. Ultimamente ho conosciuto Teho Tehardo e mi piacerebbe molto fare qualcosa con lui. La sua carriera, da noiserocker negli anni 90 a compositore di colonne sonore e sound art oggi, è di grande ispirazione per me.